"Hanno ammazzato a Borsellino"

La vespa blu attraversa la città. Non ha meta, la meta è ogni angolo, ogni bancarella, ogni palma illuminata dal sole cocente di quell’estate palermitana. Mimmo e Lisa, in sella al vespino di seconda mano, scivolano spensierati sull’asfalto rovente, confondendosi tra le grida rassicuranti degli ambulanti della Vucciria, lasciandosi trasportare dal viavai rilassato di quella mattina domenicale. É il 19 Luglio 1992.

Nel primo pomeriggio la coppia arriva al mare, all’Addaura, spiaggia di scogli, dove il bagno te lo devi guadagnare. Come per apprezzare la bellezza di Palermo: non è immediata; il fascino di questa città devi scoprirlo, devi conquistartelo. Un minuto prima delle 17, tra le mille voci della città, una si impone sulle altre per un attimo e poi più nulla.

Un boato forte, forse una bombola del gas, forse è caduto qualcosa. Gli occhi della gente sembrano cercare un segno, guardano in cielo; cercano una risposta, una rassicurazione.

In lontananza, in direzione della città, una colonna di fumo nero si alza verso il cielo. Passa un lasso di tempo indefinito, tutto sembra immobile e nessuno sembra trovare nulla da dire. Qualcuno, piange.
La maggior parte delle persone si limita a fissare la colonna di fumo all’orizzonte, quella coltre nera che divora l’azzurro del cielo, e che con il passare dei minuti va scurendosi. Lisa fissa quello spettacolo lento, quasi immobile, incredula.
Non riesce a capire. O forse sì.

Cerca una risposta negli occhi di Mimmo che al contrario suo, romana doc, a Palermo ci è nato e cresciuto.  Lo sguardo è strano, un misto di angoscia, rassegnazione e timore. Sembra esserci anche un fioco bagliore di speranza, ma forse si sta sbagliando. Passa qualche minuto e, seppur lentamente, le persone così come lo scandire del tempo sembrano tornare alla normalità.

In effetti, forse, anche quel boato può essere definito "normalità" in quella sanguinosa estate del 1992.

Mimmo e Lisa risalgono in moto e si precipitano verso casa. Il sale sulla pelle, i capelli ancora umidi. Non dicono nulla, seguono con lo sguardo la colonna di fumo che va diradandosi. Arrivano in Viale strasburgo, svoltano su Via dei Nebrodi e poi Via Monte San Calogero. Casa.

Nell’appartamento c’è solo Gianna, la madre di Mimmo, che sbuccia fagiolini nella penombra del salone. Tutto l’appartamento è buio, l’unica fonte di luce arriva dal televisore, acceso sul telegiornale. Le dita magre di Gianna separano sapienti i baccelli dai semi, mentre lo sguardo si perde nel vuoto accompagnato dalla voce del notiziario.
Fermi sulla soglia del salone, Mimmo e Lisa non riescono a fare un passo.
La voce sta dando quella notizia, quella che avevano temuto, quella che avrebbero voluto non venisse mai data.

Lentamente, Gianna alza lo sguardo.
Con voce vuota e flebile riesce solo a dire:
Hanno ammazzato a Borsellino”.

"L'onuri da famigghia a manteniri,
Figghiuzzu a to patri l'ha vendicari".

La colonna sonora del video è una Ninna Nanna popolare mafiosa, "Ninna Nanna malandrineddu", che ci fornisce uno spaccato preciso e significativo a proposito della mentalità mafiosa.

Per decenni, i neonati di famiglie del Sud legate ad organizzazioni criminali di stampo mafioso si sono addormentati con queste parole nelle orecchie. Con queste parole nelle orecchie sono andati a letto e con questi valori nella testa hanno vissuto la loro vita, prima di bambini, poi di giovani affiliati e infine, forse, di boss.

In questa Ninna Nanna sono contenuti tutti i pilastri morali mafiosi, le regole, i diktat.
C'è il concetto di tradimento, di infamia, di violenza, di morte, di onore.
Questo canto è una richiesta, il grido disperato di una madre che chiede al figlio, ancora in fasce, di vendicare l'onore della famiglia. Addirittura, la madre arriva a scusarsi con il figlio per quella preghiera ma, dice, l'unico modo per "scacciare l'odio che ho nel cuore" è che il figlio vendichi l'omicidio del padre. La vendetta risana il dolore, la vendetta è giustizia e dovere morale.
Questo è l'imprinting dei figli degli uomini d'onore, questa la loro realtà.

Quando si entra a far parte di Cosa Nostra si abbraccia un nuovo sistema e se ne rinnega un altro. Questo è il significato letterale di "Cosa Nostra", una società-altra rispetto a quella ordinaria; Quella che i mafiosi chiamano "l'onorata società", ovvero una struttura sociale composta da uomini d'onore che vivono secondo le proprie regole, le uniche alle quali rispondono, le uniche in cui si identificano.
Vista con queste lenti, è più semplice da spiegare la brutalità che caratterizza la vita di un affiliato di Cosa Nostra.
Ai più potrebbe sembrare inconcepibile vivere una vita di quel tipo, nella costante paura di essere uccisi o, nel migliore dei casi, arrestati e incarcerati ma la verità è che per i mafiosi è la normalità, un ostacolo messo in conto.
Se spari per primo, non muori, se sei più furbo, non ti fai prendere.
Sono i rischi del mestiere.

Nessun tribunale può giudicare l'onorabilità di un'uomo d'onore, nessun processo può stabilire la colpevolezza di un mafioso perché, semplicemente, queste due entità non sottostanno alle stesse regole.

Quando un mafioso si dichiara innocente non lo fa solo per sfuggire al carcere, lo fa con la sottesa convinzione di non aver fatto nulla di sbagliato, anzi di aver tenuto fede alle regole della propria comunità difendendone i valori.

Item 1 of 2

Dal punto di vista prettamente territoriale, Cosa Nostra, così come le altre organizzazioni mafiose, si suddivide in "mandamenti", ovvero porzione di territorio controllate da uno o più nuclei familiari.

Queste famiglie costituiscono il braccio armato dell'organizzazione sul territorio, i mille tentacoli della mafia che arrivano ovunque.

La struttura di Cosa Nostra

Cosa Nostra, come le altre mafie, ha una struttura gerarchica piramidale rigida di stampo quasi militare. Gli uomini d'onore sono classificati tramite gradi e appartenenza ad una data famiglia; l'appartenenza alla famiglia può essere sia per grado di parentela (cioè legame di sangue) sia per "affiliazione" (ossia quando una persona esterna alla famiglia viene inserita nel sistema tramite un rito di iniziazione che lega quella persona alla famiglia di riferimento).
Da quel momento in poi, solo la morte potrà sciogliere quel giuramento.

La Cupola

La cupola è il livello più alto della gerarchia. Questo è l'organo che comanda e gestisce l'intero sistema. Da questa posizione i capi di Cosa nostra, per fare qualche nome Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Giovanni Brusca e, soprattutto, Totò Riina, hanno ordinato omicidi, pianificato stragi e ordito trame e accordi con le istituzioni, la politica (nazionale e internazionale) e con organizzazioni occulte come la P2.

I capi di Cosa Nostra sono i personaggi di maggiore spicco dell'organizzazione, che scalano le gerarchie delle varie commissioni provinciali. Sono quegli uomini d'onore che si distinguono sul campo per abilità, strategia e crudeltà. La Cupola è formata da un numero variabile di membri ma solo uno di questi è considerato il capo di Cosa Nostra.

Commissioni Provinciali

La Cupola è composta, dunque, dai rappresentanti delle diverse commissioni provinciali. Per capire bene la struttura basta considerarla come la ripetizione di uno stesso schema organizzativo in proporzione e importanza crescente.
Ogni territorio è suddiviso e organizzato in mandamenti, ovvero territori che vengono controllati dalle famiglie di quella zona e dai loro affiliati. Questi mandamenti eleggono dei rappresentanti che presiedono la Commissione della provincia a cui appartengono.

Le famiglie e i Mandamenti

Alla base della struttura ci sono, appunto, le famiglie.
Ogni zona è controllata e presieduta da un numero variabile di nuclei familiari che (teoricamente) gestiscono il territorio cooperando. A loro volta ogni famiglia nomina un rappresentante che siede nel consiglio del mandamento di riferimento.

L'intero sistema dipende e prende ordini dalla Cupola. Nessun omicidio o affare viene organizzato se la decisione non viene approvata dalla Cupola, nessun uomo d'onore può agire autonomamente senza il benestare dei capi.

L'ascesa dei corleonesi e di Totò Riina è il risultato di diversi fattori che hanno smesso di funzionare in questo sistema. La fine della "vecchia mafia" e l'inizio della "nuova mafia" lo si deve proprio alla crisi del vecchio sistema, che ha creato una spaccatura tra capoluogo e provincia; una disuguaglianza alla quale il clan di Corleone ha deciso di ribellarsi.

"Vecchia" e "nuova" mafia.
L'ascesa dei corleonesi.

Per capire le motivazioni legate alla rivolta del clan dei corleonesi contro la mafia palermitana, bisogna cercare di comprendere cosa significhi per queste persone l'appartenenza a Cosa Nostra.

Nelle zone del Sud Italia, il crimine organizzato è, per la maggior parte degli affiliati, l'unico modo di emanciparsi dalla povertà e dalla miseria. Dispersi nei paesini o ignorati nelle città, gli uomini d'onore siciliani si organizzano per guadagnarsi da vivere, per abbandonare la povertà, per prendersi quello che l'assenza dello Stato ha negato loro. Una chance di riscatto. Una via di fuga. O almeno questa è la narrazione che sostiene la mitologia e la dignità mafiosa.

Come si controllano dei cani sciolti?

Per mantenere l'ordine in un organizzazione che si fonda su violenza, crudeltà e silenzio, è necessario creare una struttura in cui ognuno sappia qual è il suo ruolo. Soprattutto, è fondamentale che venga rispettata la catena di comando e, sembra paradossale ma è un punto chiave, la "democrazia" del sistema.
Nonostante cioè sia la Cupola a governare e decidere, la prassi prevede che ogni decisione venga condivisa con i rappresentanti dei mandamenti provinciali. Questa regola, letta nell’ottica per cui l’organizzazione è uno strumento di rivalsa sociale e, nella narrazione mafiosa, di giustizia, è fondamentale perché conferisce valore e legittimazione anche alle famiglie che non vivono nel capoluogo siciliano, considerato la culla di Cosa Nostra. Per intenderci, per evitare che i vari capi si massacrassero a vicenda per ottenere più potere, diviene necessario costruire una struttura in cui i vari capi si sentano rappresentati e legittimati dal sistema stesso: “accetto di sottostare a qualcun altro se ho diritto di partecipare alle decisioni del sistema a cui appartengo”, esattamente come in una democrazia.

Dopo la prima guerra di mafia degli anni ‘60 e il successivo processo tenuto a Catanzaro, i boss sopravvissuti si legarono in una Commissione interprovinciale.
L’obiettivo è, appunto, evitare nuovi conflitti e trovare un equilibrio stabile tra le varie famiglie mafiose siciliane. Solo dieci anni più tardi, quell’equilibrio precario si rompe di nuovo.
Nei primi anni ‘70 si l’organizzazione si spacca ancora in due fazioni: quella dei boss di Palermo e quella del clan dei corleonesi, in quel periodo in grande ascesa. A capo delle parti contrapposte ci sono due personaggi centrali nella storia di Cosa Nostra: l’allora boss di Cinisi Gaetano Badalamenti (capo di quella che chiameremo per semplicità “vecchia mafia”) e Salvatore Riina (detto Totò, capo del clan dei corleonesi e della cosiddetta “nuova mafia”).

Il rapporto si incrina quando il primo organizza un traffico di stupefacenti senza l’autorizzazione della Commissione.
Riina inizia a combattere la vecchia mafia dall’interno reclutando altri boss siciliani mettendoli contro la fazione palermitana di Badalamenti, grazie anche alla grande ricchezza ottenuta dalle attività illecite.

La situazione precipita e nel 1978 Totò Riina, attraverso una rete di contatti e trame “politiche”, riesce ad estromettere dalla Commissione Gaetano Badalamenti, con l’accusa di aver ordinato un omicidio eccellente senza autorizzazione degli altri membri della commissione. Per sostituirlo, Riina riesce a far eleggere Michele Greco, detto “Il Papa”, un associato stretto proprio del capo dei corleonesi. Con il capo della Cupola asservito al suo clan, Riina riuscì a far approvare dalla Commissione gli omicidi di moltissimi capi della “vecchia mafia”, aprendo una stagione di sangue che nel suo anno peggiore, il 1982, causerà oltre 200 morti.

Questo "tradimento" (insieme ai rancori nei confronti di Riina che gli aveva decimato la famiglia) spinsero l'ex boss Tommaso Buscetta a collaborare con la giustizia, aprendo la strada alle condanne del maxiprocesso.

Dopo l'arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993, a sostituirlo a capo dell'organizzazione è un suo pupillo, un ragazzo della provincia di Trapani: Matteo Messina Denaro.

Lunedì 16 Gennaio 2023, dopo trent'anni di latitanza, è stato arrestato.

Per 30 anni Matteo Messina Denaro, detto “u siccu”, è stato il più importante e pericoloso latitante italiano e uno dei maggiori ricercati al mondo. L’ultimo avvistamento è stato nell’agosto del 1993 quando si trovava in vacanza a Forte dei Marmi con i suoi fedeli amici Filippo e Giuseppe Graviano. Poi è sparito, volatilizzato, fino a gennaio di quest’anno.

Per tutta la sua vita è stato un fantasma: di lui non c’erano impronte digitali, pochissime foto (un paio e molto datate) e solo una registrazione della sua voce risalente al ‘93. Le testimonianze su di lui disegnano il ritratto di un mafioso freddo e spietato. Lui stesso dirà: “con tutti quelli che ho ucciso potrei riempire un cimitero”. Matteo Messina Denaro è stato un uomo d’onore da manuale, bravo con il grilletto ma capace di intessere rapporti e stringere relazioni, affidabile sul campo ma capace di strategia e fiuto per gli affari.

È stato un seguace devoto ma ha saputo imprimere la sua impronta sull’organizzazione quando è stato il suo turno di comandare. Tanto onnipresente e al centro degli affari di Cosa Nostra quanto inafferrabile e misterioso per il resto del mondo, la storia di “u siccu” può essere la chiave per entrare nella mafia odierna e svelare alcuni segreti di quella passata.

Matteo Messina Denaro è nato a Castelvetrano (Trapani), nella valle del Belice, nel 1962. Sin da giovane inizia a seguire le orme del padre Francesco, detto “don Ciccio”, boss di Castelvetrano e stretto alleato dei corleonesi. Già a vent’anni, Matteo partecipò attivamente alla guerra scatenata dai corleonesi diventando ben presto pupillo di Totò Riina. Diventa ufficialmente latitante il 2 giugno 1993. I suoi affari sono molti e diversificati: estorsioni, percentuali su contratti, accordi e transazioni nella zona del trapanese, smaltimento illegale dei rifiuti, riciclaggio di denaro e, naturalmente, traffico di droga.

Molta della ricchezza del clan di Castelvetrano deriva dagli appalti, sui quali avevano (hanno) di fatto il monopolio in tutta la provincia, anche grazie allo strettissimo rapporto che i Messina Denaro avevano (hanno) con la famiglia D’Alì.

I D’Alì sono un'importante e antica famiglia imprenditoriale del trapanese, proprietaria di saline, navi commerciali, enormi latifondi nonché della Banca Sicula di Trapani, primo istituto privato bancario della regione Sicilia. In particolare Matteo aveva un rapporto privilegiato con Antonio D’Alì, uno dei fondatori di Forza Italia, Senatore della Repubblica Italiana dal 1994 al 2018, nonché sottosegretario di Stato al Ministero dell'interno dal 2001 al 2006 e presidente della provincia di Trapani dal 2006 al 2008. Nel 2022 è stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Dopo l’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993, Messina Denaro diventa il capo indiscusso di Cosa Nostra, anche perché come detto, era l’uomo più vicino a Riina, il favorito. Salito al comando decide di cambiare modus operandi: nonostante l’avesse ideata e sostenuta, abbandona parzialmente la strategia stragista voluta da Riina per concentrarsi sugli affari e sul radicamento imprenditoriale. Da quel periodo si può dire che ha inizio un nuovo capitolo per Cosa Nostra, il periodo dei mafiosi imprenditori che, a detta di un pentito, «preferivano fare un morto in meno e soldi in più».

L’arresto di Matteo Messina Denaro ha gettato diverse ombre sui suoi rapporti con le istituzioni, sulla connivenza, comprovata, di una parte della politica e sul reale impegno che mette in campo lo Stato per la lotta alla Mafia. Trent'anni sono passati dall’arresto di Riina, trenta sono quelli di latitanza di Messina Denaro e trenta quelli passati dalla morte dei coraggiosi magistrati, tanto osteggiati in vita quanto venerati dopo la morte .

Molto è stato scritto sulla mafia e sul suo operato in Sicilia e in generale in Italia. Ormai la mafia non opera più come operava negli anni '70-'90, non più dopo il maxiprocesso, soprattutto grazie al pool di Falcone e Borsellino.
Com'era vivere nella Palermo di quegli anni?
L'ho chiesto a chi c'era, mia nonna.